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Un volontario a canestro sulla Ocean viking: la storia di Gabriele 

Gabriele Zoia ci ha raccontato la sua esperienza sulla nave di SOS Méditerranée: dall’amore per lo sport a quello per la solidarietà internazionale

 

Gabriele Zoia è milanese, appassionato di sport fin da giovane ha sempre praticato basket e vela, ora gioca nel campionato Uisp di basket. Dopo diversi anni di lavoro in finanza tra Londra e Parigi, ha studiato fundraising e cooperazione e sviluppo ed è passato ad occuparsi di raccolta fondi per l’università Bocconi, per permettere l’iscrizione a giovani che non potrebbero permettersi la retta. La sua è una storia in cui vita personale e professionale sono legate dall’importanza della solidarietà e del dono, con un terzo polo rappresentato dallo sport: “Ho iniziato a giocare a 5 anni e ho giocato con la Tuminelli romana fino alla serie C. Inoltre, ho una lunga esperienza velica, navigo da quando ho 8 anni e ho anche attraversato l’Atlantico”, ci racconta a pochi giorni dallo sbarco ad Ancona dalla Ocean viking, dell'organizzazione umanitaria SOS Méditerranée, su cui si era imbarcato tre settimane prima per vivere la sua prima esperienza di volontario in una missione di soccorso in mare.

Nei giorni precedenti avevamo incrociato un post su Facebook in cui era immortalato al fianco di un canestro sul ponte della nave: “Il canestro sulla nave c’era ma mancava la palla - racconta - nel corso del training siamo stati una settimana a Siracusa e in quei giorni mi sono messo a caccia di un pallone che poi ho regalato alla Ocean viking. Il canestro era appeso in una posizione un po’ sacrificata, perchè gli spazi sulla nave sono tutti dedicati alle operazioni di salvataggio e assistenza dei migranti, per molti giorni ci ho giocato solo io finchè non abbiamo salvato le prime 25 persone che stavano navigando su un barcone, purtroppo molte altre sono scomparse in mare. Nel periodo in cui sono stato a bordo della Ocean Viking come volontario abbiamo salvato 359 persone, tra cui molti bambini: nella tratta di navigazione tra il mar libico e Ancona, dove ci hanno mandato dopo aver recuperato centinaia di persone, ho avuto la possibilità di far giocare un po’ di bambini”.

Gabriele racconta della grande umanità che ha incontrato sulla nave, degli spazi di svago e serenità che i migranti, bambini e adulti, riescono a ritagliarsi, in quella sorta di limbo tra le partenze verso l’ignoto e lo sbarco in un Paese nuovo e non sempre ospitale. “I bambini erano i più tranquilli: una volta che sono stati salvati si sentono al sicuro, si crea una situazione di grande umanità, l’equipaggio si prende molta cura di loro, a partire dalle cose essenziali fino a quelle più piacevoli. Ad esempio sul pavimento della nave sono disegnate scacchiere e tavole da backgammon e molti si distraevano giocando a carte. I bambini si divertono, per loro è la prima esperienza su una nave, riescono a dimenticare subito i centri di prigionia o il barcone, tutto diventa un gioco per loro. Io ero a tutti gli effetti un membro dell’equipaggio quindi non avevo molto tempo per giocare, ma ho cercato di sfruttarlo al massimo. Ho passato un paio d’ore con i bambini a giocare, li sollevavo e loro mettevano la palla nel canestro, erano felici perchè erano al sicuro, finalmente trattati bene. I primi momenti del soccorso sono i più drammatici e di grande tensione, ma quando si esce dalle acque libiche tutto cambia e il lungo viaggio che siamo stati costretti a fare ci ha dato la possibilità di conoscerci”.

L’equipaggio della Ocean viking era composto da 25 persone di molte nazionalità diverse, anche molto giovani, la lingua ufficiale a bordo è l’inglese, e Gabriele Zoia era l’unico non professionista: “Avendo navigato da quando ho 8 anni mi sapevo muovere sulla nave e quindi sono riuscito a rendermi utile: sono stato nominato shower manager, mi occupavo di far fare le docce a tutti gli ospiti. Quando salgono sulla nave che li salva arrivano immersi in una miscela di acqua e nafta, che è molto urticante, vedevo le loro ossa in trasparenza, noi dovevamo lavarli con acqua e sapone perchè da soli non potevano, non riuscivano nemmeno a tenersi in piedi. Io non mi sarei fermato mai, ma serve essere svegli e riposati quando c’è bisogno, quando c’è qualcuno da salvare, quindi alla fine mi hanno detto loro di andarmi a riposare: credo che questo mi venga dalla mia lunga pratica sportiva, che ti insegna a renderti utile per il bene della squadra”.

“A bordo ho incontrato professionisti straordinari, una incredibile commistione di professionalità e umanità che mi ha colpito profondamente. Anche le persone salvate dimostrano una grandissima solidarietà: nel secondo e terzo intervento molti di loro ci hanno aiutato, erano disponibilissimi: un’immersione in come dovrebbero essere gli esseri umani e come purtroppo non siamo, perchè diamo priorità a questioni politiche rispetto alle esigenze basilari di queste persone. Ad Ancona poi, dove siamo sbarcati, abbiamo ricevuto un'accoglienza bellissima da parte degli operatori della Croce rossa e dei militari, gente bellissima ma differenza di quelli che ci governano che dimostrano una totale disumanità”.

Gabriele ci ha descritto la vita a bordo della nave: i primi giorni sono stati scanditi da esercitazioni continue, per prevedere ogni emergenza che possa capitare in navigazione, compresi gli attacchi della guardia costiera libica; hanno studiato tutte le procedure di sicurezza da mettere in atto, in ogni eventualità. Durante la fase di ricerca che si svolge nel tratto di mare di search and rescue, il giorno si sta tutti svegli e la notte si fanno turni di avvistamento di quattro ore, con i cannocchiali a guardare il mare. “Quando viene avvistato qualcosa il capomissione, dal ponte di comando, chiama il responsabile dei gommoni per dare il via alla fase ready for rescue, a questo punto bisogna prepararsi per il soccorso: in 3 minuti ci si organizza per varare i gommoni e per l’accoglienza; in 5 minuti si deve essere in acqua. Tutte le esercitazioni iniziali servono ad essere pronti per questi momenti, estremamente concitati, tutto deve funzionare alla perfezione e ognuno deve sapere cosa fare per essere utile all’operazione. Abbiamo messo in pratica anche il casualty plan: cioè il verificarsi di situazione medica talmente grave che necessitano di un ospedale da campo attrezzato sulla nave. In questo caso nove persone organizzano in tre minuti l’ospedale e purtroppo ci è servito nel primo salvataggio, perchè diverse persone stavano veramente molto male, avevano bevuto acqua salata per 5 giorni, ma noi sapevamo esattamente cosa fare: l’allenamento, come nello sport, è fondamentale per raggiungere gli obiettivi, anche quando si tratta di salvare qualcuno”. (di Elena Fiorani)

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